A quarant’anni ho iniziato un corso di equitazione. È una cosa che ho sempre desiderato fare e a un certo punto l’ho fatta, semplicemente. Non ho più dato retta a quella vocina dentro di me che diceva “È troppo tardi, non hai più l’atleticità di un tempo, uno sport deve essere iniziato in giovane età”: ho ignorato tutti questi preconcetti e mi sono iscritta.
Non ho obiettivi precisi, di certo non miro a gareggiare o a diventare insegnante di equitazione. Lo faccio perché amo il rapporto con gli animali e la natura. E poi sì, lo ammetto: da appassionata di fantasy, mi piace sentirmi come se fossi all’interno di una storia epica! Mi immagino cavalcare alla ricerca di un qualche oggetto magico, attraversando boschi fatati e regni elfici.
Mi vedo così, libera e fiera e con i capelli al vento, ma in realtà quando salgo in sella sono rigida come Robocop. Assecondare i movimenti del cavallo, dandogli però la direzione che vuoi tu, non è facile; ma è proprio questo il bello. In un mondo sempre più standardizzato, l’imprevedibilità dell’istinto animale è un toccasana.
In questo periodo, in cui la mia mente è impegnata nell’esplorazione delle tecnologie sempre più futuristiche delle AI generative (e nei loro inquietanti sviluppi), la parte più profonda del mio essere mi spinge verso territori diversi, verso l’autenticità della natura.
Recentemente ho fatto un laboratorio a Milano, in cui io e le altre partecipanti abbiamo indagato la figura archetipica della Lupa, della donna selvaggia. Tornata a casa, ho scritto in un unico flusso creativo una fiaba che parla proprio della parte più istintiva di noi, di come ci richiama e di come, a volte, deve essere assecondata. Eccola.
La fiaba della lupa
In un villaggio immerso nella foresta, mille e mille anni fa, era nata una bambina che portava gioia a tutto il villaggio.
Era instancabile e laboriosa, nessuno sapeva cucinare e preparare medicamenti come lei. Era bella e affascinante, nemmeno il bardo del villaggio riusciva a cantare la lucentezza dei suoi capelli neri. Era dolce e silenziosa, non diceva mai una parola di troppo.
La madre guardava con gioia e orgoglio a quella figlia perfetta, ma anche con apprensione. Sí, perché sapeva che nella sua famiglia c’era un’oscura tara, che avrebbe potuto manifestarsi in qualsiasi momento.
Una sera d’autunno, tutte le donne del villaggio erano riunite intorno al falò a raccontarsi storie, cucire pelli e condividere cibo. C’era un’atmosfera rilassata e raccolta; eppure, qualcosa sembrava fuori posto. Un’enorme luna piena, rossa come la pelliccia di una volpe, aleggiava misteriosa e selvaggia nel cielo.
All’improvviso, un ululato in lontananza. La fanciulla dai capelli neri alzò la testa di scatto, come se si sentisse chiamata.
«Non ti preoccupare, il branco è lontano e noi abbiamo il fuoco. Nessun lupo potrà disturbare la nostra quiete» le disse la madre.
Sin embargo, la ragazza era agitata, percepiva una sensazione dentro di sé che non aveva mai sentito prima. Un richiamo atavico, che la attirava verso la parte più oscura della foresta. Con la scusa di allontanarsi per prendere un po’ di acqua alla fonte, uscì dal cerchio e si inoltrò verso il bosco. Quando fu da sola, iniziò a correre, correre, correre, come non aveva mai fatto in vita sua, come facevano solo i cacciatori del villaggio.
Con un balzo superò un torrente, inciampò su una radice e si rialzò, si arrampicò su un pendio scosceso. Si graffiò le gambe contro rami sporgenti, ciocche di capelli le si impigliarono tra i rovi. Ma sopportò tutto, continuò a procedere, con il fiatone, con l’urgenza che le permeava ogni fibra del corpo. Infine, arrivò nel cuore della foresta, dov’era radunato il branco. Tutti i lupi si girarono verso si lei, guardandola con i loro occhi giallo oro. Una lupa, la più grande e possente, le andò incontro. La sfiorò con la sua coda morbida, camminò intorno alle sue gambe in una danza sinuosa. Nei suoi occhi c’era tutta la sapienza del bosco.
La fanciulla aveva paura. Paura di se stessa, delle emozioni che provava. Perché non desiderava andare via: voleva essere anche lei una lupa. Quando si concesse di realizzare quel pensiero, sentì un insopportabile prurito sulla testa. Si grattò con le unghie i serici capelli neri, e tra le sue dita spuntarono due orecchie pelose. Poi le unghie crebbero e diventarono artigli. Con un movimento fluido si portò in quadrupedia; il corpo iniziò a coprirsi di peli, i sensi si amplificarono. Non si era mai resa conto che la foresta avesse tutti quegli odori, di umido, di terra, di foglie macerate nel sottobosco.
Il branco cominciò a correre e la fanciulla lo seguì. In quel momento viveva solo l’istante del presente, non aveva altri pensieri se non il suono del suo cuore, che batteva nella cassa toracica con un ritmo selvaggio.
Forse, l’indomani si sarebbe svegliata in vesti umane e sarebbe dovuta tornare al villaggio.
Forse, avrebbe dovuto dare spiegazioni.
O forse, sarebbe rimasta per sempre lupa.
Ma in quel momento non le importava. In quel momento, era parte del branco e della foresta.