Artemide, dea della caccia: poteri, leggende e curiosità

Storia e curiosità di una delle dee più amate dell’Olimpo

A tre anni, Artemide fu portata per la prima volta al cospetto del padre Zeus. Il re dell’Olimpo rimase incantato da quella bimba, così bella e intelligente. La fece sedere sulle sue ginocchia, le accarezzò la schiena e le disse più o meno così: «Piccola mia, chiedi tutto quello che vuoi e il tuo papy te lo darà».

Cosa credi che abbia voluto la piccola? Una montagna di dolcetti? Giocattoli? O magari un pony? No! Ecco la lista delle sue richieste:

  • arco, frecce e una muta di cani per andare a caccia
  • interi boschi a suo uso esclusivo
  • una squadra di ninfe al suo servizio
  • una tunica corta per poter correre senza impiccio
  • castità perenne.

Non c’è che dire: era una bambina dalle idee chiare

Fin dalla nascita, si rese utile alle altre donne. Nacque prima del gemello Apollo, così assistette al secondo parto della madre Leto, confortandola durante il durissimo travaglio durato nove giorni.

«Che esagerazione… una neonata in grado di aiutare la madre a partorire!» dirai. Ebbene sì, gli dèi erano esagerati… se no che divinità sarebbero? Basti pensare a Ercole, che ancora in culla strozzò i serpenti inviati dalla gelosa Era per ucciderlo. E pensa che non era nemmeno un Dio, ma “solo” un semidio. Ma torniamo alla nostra Artemide. Circondata da fanciulle, legatissima alla madre, non sentì mai il bisogno di avere accanto a sé un marito o di mettere al mondo dei figli. Era realizzata così, affascinante e irraggiungibile come la Luna.

Diana la cacciatrice, Guillaume Seignac

Artemide incarnava un aspetto importante della Dea Madre: quello della fanciulla

Per sua natura non era collegata né alla maternità né al ciclo morte/rinascita. Nel pantheon, quindi, le furono affiancate due divinità che simboleggiavano le altre caratteristiche della Grande Dea: Selene ed Ecate, che con Artemide formavano una trinità lunare. Ecco come era composta la trinità:

  1. Artemide, cioè la Fanciulla Vergine. Rappresentava la Luna crescente.
  2. Selene, la Sposa/Madre. Rappresentava la Luna piena. Incarnava la figura della donna innamorata e feconda. Il mito più conosciuto che la riguardava era legato all’amore per il mortale Endimione. Selene lo vide per la prima volta mentre stava dormendo in una grotta e ne fu ammaliata. I due diventarono amanti, però la Dea non poteva sopportare l’idea che un giorno il giovane, essendo mortale, potesse morire. Così lo fece sprofondare in un sonno eterno, per poterlo tenere sempre accanto a lei. Ma il sonno di Endimione era speciale: dormiva a occhi aperti, cosicché potesse continuare a vedere l’amata. Dall’unione tra i due nacquero cinquanta figli.
  3. Ecate, la Signora della Morte. Come abbiamo visto nel capitolo dedicato a Lilith, rappresentava la Luna calante. Governava la notte, gli spettri e padroneggiava la negromanzia.

Essendo Artemide la personificazione della Fanciulla Vergine, gli uomini non potevano far altro che ammirarla da lontano, splendida in tutta la sua affascinante femminilità. Non si copriva con una corazza, come Atena, né viveva in solitudine, come Estia. No, lei rimaneva desiderabile, ma inaccessibile.

Artemide, dea vendicativa

Artemide era anche famosa per le sue reazioni molto “composte” ed “equilibrate” (sì, come no) ai torti subiti. Ecco un paio di esempi:

  • Un giorno, mentre stava facendo il bagno, si accorse di essere spiata dal cacciatore Atteone. Come punizione, lo trasformò in cervo e lo fece sbranare dai suoi stessi cani.
  • La sventurata Niobe ebbe la malaugurata idea di vantarsi con Leto della sua numerosa prole. Le disse più o meno così: «Io ho ben dodici figli, mentre tu sei riuscita a metterne al mondo soltanto due!» Leto andò a lamentarsi con i suoi pargoli e questi fecero una strage. Artemide uccise le sei figlie femmine di Niobe e Apollo i sei maschi.
Artemide, Francesco Hayez

La paladina delle donne

Artemide viene ricordata soprattutto per il carattere vendicativo e iracondo, ma in realtà era anche un’entità benevola e amica dei mortali.

Era la paladina delle donne che subivano molestie. Spesso protesse la madre da violenze carnali, perpetrate da altri Dei. Ma non solo. Secondo una versione del mito, fu proprio lei a salvare dall’altare sacrificale Ifigenia, la figlia di Agamennone. Il padre, infatti, accettò di immolarla per poter veleggiare su Troia con venti propizi, ma la Dea la mise in salvo e la fece diventare sua sacerdotessa.

Un culto anche maschile

Interessante, inoltre, notare come questa divinità avesse anche seguaci maschili. Uno di essi era Ippolito. Essendo devoto al culto esclusivo di Artemide, causò la collera di Afrodite: per punizione, la Dea dell’amore fece innamorare di lui la matrigna Fedra.

La donna cercò in tutti modi di sedurlo, ma lui resistette. Fedra, umiliata, si uccise. Ma prima di farla finita, lasciò un biglietto in cui accusava falsamente Ippolito di stupro. Il marito di Fedra pregò allora Poseidone di uccidere il figliastro. E venne accontentato. Povero Ippolito, che fine ingiusta! Condannato a morte per un crimine che non aveva mai commesso!

Per fortuna, Artemide ebbe pietà del suo sfortunato seguace. Lo fece resuscitare e gli assegnò il nome “Virbio”, cioè “uomo due volte”. Virbio andò ad abitare in Italia e sposò la bellissima ninfa Egeria.

Artemide e Britomarti

C’è un ultimo mito su cui intendo soffermarmi: la storia di Britomarti, una divinità cretese associata al culto della Luna. La sua figura era una delle tante derivazioni della Dea Madre.

A Creta, culla della cultura minoica, stupendi templi e incredibili dipinti testimoniano il culto riservato alla Grande Madre. La società dell’isola era pacifica, gioiosa, amante dell’arte e paritaria nella distribuzione dei beni. La donna rivestiva un ruolo importantissimo.

Britomarti era una divinità che amava vivere in mezzo ai boschi, stare a contatto con la natura e gli animali. Era intelligente e aveva un temperamento amabile (il suo appellativo era “dolce vergine”). Inventò le reti da pesca e le donò all’uomo.

Più avanti, quando la civiltà minoica si scontrò con quella achea, Britomarti fu assorbita dal culto di Artemide. Diventò parte del suo seguito di ninfe: le venne affidato il compito di tenere al guinzaglio i cani della muta da caccia. Ma alcune caratteristiche del suo culto rimasero, come per esempio il fatto di essere la creatrice delle reti da pesca, uno degli strumenti più preziosi per l’economia dell’epoca. E ora, scopriamo insieme la sua storia.

Britomarti reinterpretata in chiave cavalleresca da Walter Crane

La leggenda di Artemide e della ninfa Britomarti

Bionda, occhi splendenti, carnagione candida. Britomarti era una delle compagne favorite di Artemide. E lei, amabile fanciulla, era felice di stare al fianco della Dea. La divinità lunare era il suo modello, la donna che lei stessa voleva essere, libera e fiera. Le ninfe erano sue sorelle, il bosco la sua casa. Amava la caccia e la vita all’aria aperta. Non aveva nessun desiderio di legarsi a un uomo.

Un giorno, però, il re Minosse la vide mentre stava bevendo a una fonte. Fu preso dalla smania di possederla. Le fece molte profferte, ma lei non volle ascoltarlo. Era fedele ad Artemide, non le interessava altro.

Minosse non accettò il rifiuto. Cominciò a spiarla, seguendone i passi, studiando il momento migliore per isolarla dalle compagne e farla sua. Alla fine, riuscì a ghermirla mentre riposava in una radura. Lei gli sfuggì dalle mani, ma l’inseguitore non si diede per vinto. Nove mesi la rincorse, per nove mesi non le lasciò tregua. Braccata, terrorizzata, separata dalle amiche, Britomarti visse un periodo di costante sgomento. Quell’uomo voleva violarla, prenderla con la forza per poi dimenticarsene e abbandonarla come un giocattolo rotto. Lui avrebbe avuto la sua soddisfazione, per poi passare a un’altra preda. Ma a lei sarebbe rimasta una ferita inguaribile.

La fanciulla si nascose in un bosco fitto di querce, sperando che gli alberi la occultassero, ma la brama di Minosse riuscì a trovarla in breve tempo. Allora si rifugiò nel palazzo della Dea fluviale Bize, ma il re di Creta la scovò anche lì.

Dopo nove lune di inseguimenti, sfinita, realizzò che non poteva più continuare a sfuggirgli. L’unica alternativa alla violenza era la morte. Si sarebbe buttata da una rupe.

Nel frattempo Artemide, accortasi della sua assenza, la cercava senza tregua. Non poteva credere che quella fanciulla così fedele l’avesse abbandonata di proposito. Cominciò a chiedere informazioni, interrogando i venti, i satiri e le ninfe silvane. Essi temevano il re cretese, ma la collera della Dea li atterriva di più. Riferirono che la fanciulla si stava nascondendo da un uomo, pur non rivelando l’identità dell’aggressore. La divinità decise subito di correre in aiuto della compagna. I cani della muta, che amavano Britomarti, aiutarono la padrona a trovarne le tracce. Non era facile: la ninfa si muoveva velocemente, era abile a seminare gli inseguitori. Solo Minosse, ostinato nella sua distruttiva passione, riusciva a stanarla sempre.

Artemide si dedicò senza sosta a rintracciare Britomarti, eclissandosi dagli altri incarichi. Era così presa dalle ricerche che per una notte intera non fece comparire il suo corpo celeste nel cielo, che rimase oscurato.

Infine, raggiunse la ninfa proprio nel momento in cui la fanciulla aveva ormai spiccato il volo da un’alta scogliera. Ma il suo animo generoso le venne in soccorso: Britomarti cadde in una rete da pesca, la stessa che aveva regalato all’umanità.

Fu tratta in salvo da un gruppo di pescatori. Minosse pensò che fosse morta, così rinunciò all’inseguimento e tornò al suo maestoso palazzo nell’isola di Creta. Non si crucciò molto per la fine della ninfa: per lui non era altro che una preda, da violare finché era giovane e in salute.

Per Artemide, invece, Britomarti era una delle compagne più amate. E quell’episodio rinforzò ancora di più il legame con lei. La povera fanciulla aveva sofferto per nove mesi, terrorizzata, una spaventosa persecuzione. Non aveva accettato compromessi. Era arrivata al proposito di uccidersi, pur di rimanere fedele a se stessa e alla Dea. E la Dea sapeva essere generosa nel ricompensare i suoi seguaci. Per premiarla, decise di conferirle la massima onorificenza: la trasformò in una divinità. Le offrì l’ambrosia, il nettare divino, che dona vita eterna ai mortali. La fece entrare nell’Olimpo come una regina, presentandola come la sua compagna prediletta, colei che non si era arresa al desiderio distruttivo degli uomini. Infine, le assegnò un nuovo nome, con cui mostrarsi al mondo per poter essere venerata con gli onori che le spettavano. Quel nome era Dictinna, parola collegata a “dictyon”: rete da pesca. Lo strumento che decretò la sua salvezza, frutto della sua stessa genialità.

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